Notte di mezza estate, in piena Lombardia.
Una delle tante trasferte di lavoro fatte di giornate convulse e serate solitarie.
Finiscono quasi tutte allo stesso modo: al tavolo di un ristorante da solo e poi in una camera come tante, nell’ennesimo business hotel.
Quella volta però, rientrando da una cena scolorita in una anonima trattoria, ho intravisto un dettaglio che avrebbe potuto dare una svolta alla serata. In un salottino semibuio, nascosto in fondo alla enorme hall dell’albergo, c’era un pianoforte a disposizione degli ospiti.
Un bel pianoforte a coda.
Tentenno.
Titubo.
Vacillo.
Infine cedo.
Mi siedo, poggio le mie grosse dita sui tasti e inizio a suonare.
O meglio, a provarci.
Per qualche minuto le mie dita balbettano accordi, abbozzano incipit, inseguono melodie perse da qualche parte tra i ricordi.
Ma ecco il colpo di scena.
Non la vedo arrivare, ma d’improvviso, nel divanetto accanto al pianoforte, si materializza una ragazza biondo cenere. Bella, di una bellezza naturale e prepotente.
Aria straniera, ne sono certo. Il mio fiuto infallibile percepisce profumo di Europa dell’Est.
Non mi è passata davanti percorrendo la hall e non l’ho vista scendere le scale.
Sembra essere apparsa dal nulla o forse da un varco dimensionale, come Kurt Russel in Stargate.
Un segno del destino?
Devo colpirla, devo sorprenderla.
In un impeto di furore artistico, con grande sforzo, partorisco i soli due brani che sono riuscito ad imparare in tremila lezioni, un paio d’anni or sono: Per Elisa del LudovicoVan [cit.*] e una balbettante ma strategica versione di Bella Ciao, ingenuo araldo dell’italianità all’estero. Praticamente lo starter pack del principiante autodidatta, alla faccia del capitale versato alla mia maestra di piano.
Cinque minuti scarsi, zeppi di errori, inciampi, incertezze e aritmie. Ma genuini.
Alzo la testa e intravedo la bionda che sorride benevola mimando un silenzioso applauso.
E’ fatta – penso – Non ha scampo…
Anche il barman mi lancia un cenno d’intesa: tifa palesemente per me.
Nella mia mente bacata è già partito il resto del film, in Technicolor e Dolby Surround:
Le offro una spuma al bar per rompere il ghiaccio, faccio un po’ il brillante e inevitabilmente la bella straniera soccomberà (per Dio, se soccomberà!) al mio irresistibile fascino latino.
E vissero felici e contenti.
Seguendo il copione mi alzo e vado verso di lei, sfoderando il mio migliore sorriso maggico, a metà tra l’imitazione di Joker e una emiparesi.
Ed ecco il secondo colpo di scena: lei scarta di lato più rapida di Ronaldo il Fenomeno, mi dribbla, prende il mio posto al pianoforte e comincia a suonare.
Impetuosamente.
Riconosco prima Rachmaninov, poi Bach.
Vigliacca.
Sono rimasto ad ascoltarla incantato, ma con in bocca quel retrogusto di figura di merda che tanto mi è familiare. Ovviamente nella mia simpatica testolina di cazzo il film era comunque già ripartito:
Ora mi inviterà a suonare a quattro mani, come Bradley Coso e Ledi Gaga alla cerimonia degli Oscar, e d’un tratto ci baceremo, facendo tremare Bach [cit.*]
So che rimarrete di sasso, ma incredibilmente non è andata così.
In realtà la biondina cenerilla ha terminato la sua performance, mi ha salutato sorridendo e se n’è seraficamente tornata in camera, lasciandomi come un pirla nel mezzo della hall.
Il barman tuttavia è stato molto solidale e insieme al Vodka Martini agitato ma non mescolato, mi ha servito gratuitamente una doppia razione di olive.
Son soddisfazioni.
PS1: il post è dedicato, oltre che alla musa cenerilla e al mitico barman incontrati a Bergamo, anche alla mia validissima maestra di pianoforte, che purtroppo ha avuto la sfortuna di trovare sulla sua strada le mie dita a salsicciotto.
PS2: [*] chi indovina le due (facili) citazioni fa parte della generazione X, oppure è ganzo/a.
.
Leave a Reply